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Responsabilità professionale dell'avvocato e risarcimento del danno: riflessioni su un curioso caso d'omessa informazione al cliente
Resp. civ. e prev. 2009, 10, 2051
Marco Azzalini Professore a contratto nell'Università di Bergamo Sommario: 1. La responsabilità professionale dell'avvocato tra semplificazioni e questioni irrisolte. 2. La posizione del professionista tra obbligazioni di mezzi e di risultato: cenni. 3. Il problema degli obblighi d'informazione e la responsabilità dell'avvocato. 4. Perdita di chances, pregiudizio attuale e risarcimento del danno. 5. Considerazioni conclusive. 1. La responsabilità professionale dell'avvocato tra semplificazioni e questioni irrisolte Quello collegato ai molti volti e ai molteplici caratteri della responsabilità professionale costituisce tema che ritorna con notevole frequenza al centro dell'attenzione delle Corti e degli autori, in considerazione, per lo più, della delicatezza e della varietà delle fattispecie concrete, usualmente rilevanti in relazione a domande di natura risarcitoria, rispetto alle quali la materia viene prepotentemente in rilievo. Nel caso di specie, un legale dimentica di comunicare ai propri assistiti il deposito di una sentenza di primo grado, determinando in tal modo, per gli stessi, la perdita della possibilità di impugnare la pronuncia, con conseguente soccombenza definitiva. A seguito di tali fatti, i clienti citano in giudizio il professionista, per vedersi riconosciuto il risarcimento del danno asseritamente subito in conseguenza del negligente comportamento dell'avvocato: danno consistente, a detta degli attori, non solo nella mancata possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni in sede di gravame, bensì anche nelle ulteriori conseguenze pregiudizievoli evidentemente derivanti dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (mancanza di eventuale sospensione della esecutività della sentenza impugnata, mancanza della possibilità di avviare trattative per un accordo transattivo da una posizione di maggiore vantaggio, ecc.). La Corte di legittimità respinge il ricorso degli attori, risultati peraltro pienamente soccombenti tanto in primo che in secondo grado, sulla base di una nota e consolidata giurisprudenza: quella che ritiene, sostanzialmente, per un verso che ai fini della risarcibilità del danno cagionato dalla negligenza dell'avvocato occorra la prova, da parte degli attori, della cosiddetta certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, laddove, per altro verso, il metro centrale ai fini della valutazione di tale asserita certezza morale sarebbe da individuarsi in un'indagine sul sicuro fondamento dell'azione da coltivare e sulla prognosi favorevole della stessa. In questo senso, la pronuncia non svela alcuna novità d'approccio al problema de quo. Quello che colpisce, semmai, e non solo sul piano intuitivo proprio dell'uomo della strada ma anche sotto il profilo tecnico dei valori giuridici in gioco è l'esito cui l'applicazione di questo modo di considerare le cose ed i problemi conduce: vale a dire l'asserto della non risarcibilità del danno, salva la dimostrazione di quanto sopra, anche dinanzi ad episodi di negligenza professionale che impressionano per gravità ed evidenza, quale quello verificatosi nella vicenda in epigrafe. La sentenza della Suprema Corte, dunque, suscita più di uno spunto d'interesse, tanto in relazione al metodo seguito nell'affrontare la questione che sta al centro della vicenda e della causa, quanto ad alcuni interrogativi che sembra lasciare irrisolti relativamente alle conseguenze francamente paradossali cui è possibile giungere in questo come in infiniti altri casi analoghi. Quanto al metodo, si parte implicitamente dal presupposto che la posizione dell'avvocato, legata alla prestazione professionale che egli svolge, possa essere trattata in maniera pressoché monolitica, sminuendo la necessità di approfondire le necessarie e obiettive distinzioni che dividono i diversi tipi di prestazione professionale scolpendo, di riflesso, anche diverse caratterizzazioni dell'inadempimento. Quanto agli interrogativi che la pronuncia suscita, i più rilevanti tra essi risultano legati tanto alla meccanica e teorica del ristoro del pregiudizio per casi in cui la negligenza professionale, pur non necessariamente latrice di un evidente danno patrimoniale se inteso, quest'ultimo, nei termini di uno stretto legame con le probabilità di una vittoria piena travalica persino nel malcostume, quanto all'esatto inquadramento del tipo di danno lamentato dagli attori e il cui risarcimento viene, nel caso concreto, negato. 2. La posizione del professionista tra obbligazioni di mezzi e di risultato: cenni Prima di considerare gli snodi chiave attorno a cui si sviluppa la sentenza, e dietro ai quali si nascondono i maggiori aspetti problematici, occorre partire da una riflessione più ampia e considerare come, sullo sfondo della vicenda e dell'argomentazione del Collegio, si staglino le consuete questioni irrisolte concernenti l'inquadramento e la disciplina delle obbligazioni cui sono tenuti i cosiddetti professionisti intellettuali, così raggruppati usualmente dalla giurisprudenza, e sovente anche dalla dottrina, attraverso generalizzazioni che non sempre convincono. In particolare, pare di capire che ogni ragionamento in materia finisca con lo svilupparsi sempre all'ombra della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, che parrebbe, troppo spesso, presentare ricadute pesanti, dirette ed indirette, anche nell'ambito dei giudizi per inadempimento. Il collegamento tra il tema e la vicenda in commento, che non emerge exspressis verbis, va forse più nettamente evidenziato. Da un lato, ci troviamo dinnanzi ad un inadempimento di manifesta e grossolana gravità: l'avvocato ha dimenticato di comunicare il deposito di una sentenza di primo grado sfavorevole; in tal modo, ha fatto perdere ai clienti la possibilità di scegliere se procedere con il giudizio appellando la sentenza, per poi magari affrontare anche il giudizio di Cassazione, oppure se accettare di risultare definitivamente ed immediatamente soccombenti, chiudendo in tal modo la vicenda. Il legame tra la perdita della possibilità di impugnare e la condotta negligente del legale è talmente evidente da poter assurgere ad esempio del concetto codicisticamente recepito di "diretta conseguenza" del danno derivante dall'inadempimento. Dall'altro, tuttavia, il danno non viene considerato risarcibile, in ragione della mancata prova di un probabile esito favorevole del giudizio d'appello, nonché sulla base di altre e, parrebbe, minori considerazioni. Ora, la pronuncia, con il reiterato riferimento alla questione della mancata dimostrazione da parte degli attori di una "certezza morale" da riferirsi all'esito finale positivo della vertenza giudiziaria richiama, indirettamente, sul terreno del giudizio in merito al danno da inadempimento, l'idea dell'obbligazione di risultato. Mentre la ritenuta sostanziale irrilevanza sul piano del ristoro della negligenza in sé considerata, alla quale, bongré malgré, il Collegio sembra attribuire solamente il ruolo di uno tra i singoli elementi che compongono la fattispecie risarcitoria, negandone l'idea e la dignità di fulcro, richiama (smentendola, per il caso di specie) l'idea dell'obbligazione di mezzi. Il discorso, in questa sede, non può essere sviluppato nella misura adeguata in ragione della sua complessità, ma suscita talune riflessioni, tra le quali ci limiteremo a segnalarne una: il giudizio sull'inadempimento deve essere condotto sulla base di un corpus di regole unitarie e omogenee che prescindono chiaramente, sotto tutti i profili, dalla distinzione tra obbligazioni di mezzi e risultato. Cosicché la questione della qualificazione del tipo di obbligo in termini, diciamo così, di mezzi o di risultato (concetto, quest'ultimo, che, trasportato sul piano del risarcimento del danno, si traduce nel riferimento alla raggiungibilità e alla probabilità dello stesso) non sposta alcun termine del giudizio di inadempimento. Negli anni, la Corte di cassazione ritorna ciclicamente sulla materia dell'obbligazione di mezzi e di risultato, con esiti contrastanti: in una discussa sentenza in materia medica (1) (1) Si tratta di Cass. civ., 13 aprile 2007, n. 8826, in questa Rivista, 2007, 1824 ss. con nota di GORGONI, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile, ivi, 1840 ss.; e in Nuova giur. civ. comm., 2007, 1428 ss. In essa si rinviene, tra le molte affermazioni, quella secondo cui "La diligenza richiesta al medico deve essere qualificata, ex art. 1176, comma 2, c.c., con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi. Va superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, perché priva di argomenti sostanziali". , non lontana nel tempo, si è giunti ad affermare l'inconsistenza della distinzione in quanto essa costituirebbe "il frutto di una risalente elaborazione dogmatica accolta dalla tradizionale interpretazione e tralatiziamente tramandatasi, priva invero di riscontro normativo e di dubbio fondamento". Per contro, una pronuncia di pochi mesi posteriore, della medesima Sezione della Corte, tornò poi ad affermare, anzi a presupporre, la qualificazione dell'obbligazione del medico come appartenente al novero delle obbligazioni di mezzi (2) (2) Così Cass. civ., 26 giugno 2007, n. 14759, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 1439 ss., ove si afferma che "l'obbligazione assunta dal professionista e dalla struttura ospedaliera è di mezzi e non di risultato e ... il mancato o incompleto raggiungimento del risultato non può, di per sé, implicare, dunque, inadempimento"; l'affermazione è seguita da ulteriori interessanti precisazioni volte a chiarire il concetto. . La distinzione ha vissuto alterne fortune in dottrina (3) (3) Vale la pena osservare, anche per la dottrina, quanto il Bianca riferisce all'atteggiamento della giurisprudenza sul tema, vale a dire che gli insistiti richiami alla distinzione sovente "si spiegano principalmente per la forza di suggestione della formula più che per una sua meditata analisi" (BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, 32). , e tuttavia essa ha trovato sempre una larghissima eco giurisprudenziale, che s'è talora tradotta in singolari applicazioni (4) (4) Si veda, ad esempio, Cass. civ., 16 giugno 1989, n. 2916, dove il binomio mezzi/risultato viene curiosamente collegato al problema della presenza o assenza del vincolo di subordinazione nel rapporto di lavoro e delle implicazioni della medesima. e più spesso è servita a individuare, delineare e trasfondere, in decisioni di non lieve rilievo, presunte differenze di trattamento sotto i profili del regime della responsabilità e di quello della ripartizione dell'onere della prova (5) (5) Si vedano quantomeno STANZIONE-ZAMBRANO, Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano, 1998, 27 ss.; per un riferimento ad un caso peculiare, VASAPOLLO, L'odontoiatra tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Resp. civ., 2005, 551 ss. . In realtà, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e risultato assume un qualche senso solamente con riguardo alla teoria della prestazione e a null'altro; ciò che si descrive parlando di obbligazione di mezzi e risultato è una differenza che riguarda, quindi, la struttura della prestazione e questo solamente. Se altri profili d'interesse vi sono, si tratta solamente di conseguenze fisiologiche di tale diversità. Anche autorevole dottrina tedesca, peraltro, affronta il tema del rilievo del mezzo e del risultato rispetto al rapporto obbligatorio dal punto di vista della struttura dell'obbligazione, e, in particolare, della prestazione (6) (6) Sul punto, e sulle possibili estrinsecazioni concrete del concetto di prestazione, si vedano LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, Band I, Allg. Teil, Beck'sche Verlagsbuchhandlung, München, 1987, 8 ss.; ESSER-SCHMIDT, Schuldrecht, Band I, Allgemeiner Teil, Teilband 1, Müller Verlag, Heidelberg, 1995, 102 ss.;FIKENTASCHER, Schuldrecht, Walter de Gruyter, Berlin, 1969, 33ss.; WIEACKER, Leistungshandlung und Leistungserfolg im bürgerlichen Schuldrecht, in Festschrift für Nipperdey, 1965, I, 783 ss. . È un punto di vista corretto: occorre rendersi conto, di volta in volta, di rapporto in rapporto, se la prestazione sia costituita e strutturata in una condotta (Handlung) o se essa assuma come parte di sé il conseguimento di un risultato (Erfolg). In sostanza, l'espressione "prestazione" può assumere due significati; o, se si vuole, essa, pur esprimendo un concetto unitario (il quid debeatur), presenta due declinazioni: talora indica una attività rivolta ad un risultato; talaltra l'esito da raggiungersi attraverso l'attività, dunque il risultato stesso che di detta attività sia conseguenza (7) (7) La distinzione è chiaramente delineata da LARENZ, op. cit., 8. . È, peraltro, anche vero che la partizione contribuisce a delineare due differenti modi d'essere dell'adempimento che rispecchiano con particolare realismo due definiti quadri fattuali dinanzi ai quali il professionista può venire a trovarsi: il discorso sulla reale qualificazione dell'obbligazione del professionista non può, infatti, ammettere quelle generalizzazioni che talora, rudimentalmente, si tentano. È ben possibile, infatti, che le obbligazioni di taluni professionisti siano da considerarsi di mezzi, e in quelle di altri sia da ravvisare un'obbligazione di risultato (8) (8) Un impressionante numero di pronunce in tema di responsabilità del notaio, ad esempio, qualificano la medesima (che trova fondamento giuridico negli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c.) come derivante dal suo obbligo, che andrebbe qualificato come obbligazione di risultato e non di mezzi. Nel senso che il notaio sarebbe tenuto, ad esempio, ad effettuare le visure ipotecarie a meno che le parti non l'abbiano pattiziamente esonerato dal farlo, si veda Cass. civ., 2 aprile 1975, n. 1185, in Giust. civ., 1975, I, 914; Cass. civ., 10 ottobre 1992, n. 11094, in Vita not., 1993, I, 418; Cass. civ., 3 gennaio 1994, n. 6, in Foro it., 1994, I, 1783; Cass. civ., 20 gennaio 1994, n. 475, in Foro it., 1994, I, 713; Cass. civ., 24 settembre 1999, n. 10493. . Di più: in realtà uno stesso professionista può ben trovarsi, tendenzialmente, ad essere debitore dell'una o dell'altra categoria di prestazioni. Occorre partire, ancora una volta, da un dato di fatto: sono le pronunce giurisprudenziali stesse a mostrare peculiari oscillazioni nella qualificazione dell'obbligo del singolo professionista in termini di mezzi o risultato a seconda che sia dovuto o meno anche un opus ovvero a seconda del concetto di discrezionalità che si assume. Così capita di leggere una sentenza dove l'attività prestata dall'avvocato usualmente citata, come topos ricorrente, quale esempio di obbligazione di mezzi viene qualificata nei termini di un obbligo di risultato laddove dovuto sia un parere in ordine all'esperibilità o meno di un'azione giudiziale (9) (9) Così Cass. civ., 14 novembre 2002 , n. 16023 , ove si legge, testualmente, che "di regola, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, non per conseguirlo; tuttavia, avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione". ; oppure capita d'imbattersi nell'affermazione reiterata secondo cui l'obbligo di un ingegnere di redigere un progetto sarebbe da annoverarsi tra le obbligazioni di risultato in quanto il progetto costituirebbe "un risultato ben definito e dotato d'una sua autonoma utilità qual è la sua realizzabilità" (10) (10) Così, recentemente, Sez. Un. civ., 28 luglio 2005, n. 15781. La sentenza, molto discussa, si legge in Resp. civ., 2006, 229 ss., con nota di FACCI; in Contratti, 2006, 349 ss., con nota di TOSCHI VESPASIANI-TADDEI; in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 828 ss., con nota di VIGLIONE; in Obblig. contratti, 2006, 712 ss., con nota di FOLLIERI; in Europa dir. priv., 2006, 781 ss., con nota di NICOLUSSI. Sullo stesso tema, nel medesimo senso, si vedano da ultimo Cass. civ., 5 agosto 2002 , n. 11728; Cass. civ., 27 febbraio 1996, n. 1530; Cass. civ., 28 gennaio 1995, n. 1040; Cass. civ., 22 dicembre 1994, n. 11067; Cass. civ., 19 luglio 1993, n. 8033. Ma v'è anche un filone contrario, secondo cui l'orientamento di cui s'è appena dato conto darebbe luogo, per i progettisti, "ad uno snaturamento del rapporto, configurando come di risultato un'obbligazione viceversa ritenuta tipicamente di mezzo per tutte le altre libere professioni". In questo senso, si vedano da ultimo Cass. civ., 23 luglio 2002 , n. 10741; Cass. civ., 27 maggio 1997, n. 4704; Cass. civ., 22 dicembre 1994, n. 11067; Cass. civ., 20 agosto 1993, n. 8799. ; altrove, poi, si afferma che, tuttavia, qualora l'ingegnere progettista assommi in sé anche il ruolo di direttore dei lavori, allora egli sarebbe debitore di un'obbligazione di mezzi (11) (11) Cass. civ., 29 gennaio 2003, n. 1294; Cass. civ., 1° dicembre 1992, n. 12820; Cass. civ., 28 gennaio 1985, n. 488. Due pronunce non di molto anteriori a queste ultime segnalate si spingevano anche a qualificare come di risultato l'obbligazione del progettista associata a quella della direzione dei lavori dell'opera. Si tratta di Cass. civ., 27 ottobre 1984, n. 5509; e di Cass. civ., 22 aprile 1974, n. 1156. . E la confusione diviene massima nell'ambito dell'attività medica, dove si giungono ad assumere come criteri per distinguere se l'obbligazione dovuta sia di mezzi o risultato fattori come la facilità o meno dell'intervento medico (12) (12) La Cassazione si è più volte pericolosamente avventurata sul terreno definitorio per descrivere che cosa sia un intervento medico di facile esecuzione. Si vedano a mero titolo d'esempio Cass. civ., 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. civ., 9 ottobre 2001, n. 12359; Cass. civ., 28 maggio 2004, n. 10297. oppure il fatto che esso sia o meno riconducibile alla chirurgia estetica (13) (13) Peraltro si tratta, a giudizio di chi scrive, di semplificazioni non convincenti. Sul punto, pare corretto abbracciare quel filone di pensiero, ripreso anche da talune pronunce, che riteneva, in un non lontano passato, che fosse categoricamente da escludere che il ramo della chirurgia estetica potesse o dovesse in qualche maniera differire dalla chirurgia comune quanto a disciplina giuridica. Il chirurgo estetico compie un intervento sanitario di tipo invasivo; e dovrebbe essere superfluo precisare, come correttamente, tuttavia, fa il MOSCA, Medico, responsabilità e chirurgia estetica, in Arch. civ., 2003, 3 ss., che trattasi di "vero e proprio intervento medico ... e non soltanto mera cosmesi". Al buon senso evocato da tale ovvia considerazione si è tuttavia contrapposto l'anodino e contraddittorio atteggiamento giurisprudenziale sul punto. Così, sin dalla assai nota Cass. civ., 8 agosto 1986, n. 4394 (la pronuncia si legge in Giust. civ., 1986, 1435 ss. con nota di COSTANZA), in un continuo susseguirsi di temperamenti e tentennamenti, le Corti hanno finito per inquadrare l'intervento estetico nell'alveo delle obbligazioni di risultato. , spingendosi persino a ipotizzare particolarità di trattamento per la posizione dell'odontoiatra, e così via. Il groviglio giurisprudenziale di cui s'è dato sommariamente conto non risulta però, ad un attento sguardo, inestricabile, se solo lo si affronta partendo dal presupposto essenziale della necessità di una accurata differenziazione qualitativa delle singole prestazioni professionali considerate. L'obbligo di un progettista, in questo senso, presenta notevoli differenze rispetto a quello di un medico. E il quid debeatur di un avvocato, per ragioni consimili, non è assimilabile a quello di un ingegnere. Ma è necessario spingersi ancora più nel dettaglio per osservare come, in effetti, anche l'obbligo di un avvocato che sia chiamato alla redazione di un parere sia, in effetti, diverso dall'obbligo assunto dal medesimo avvocato qualora egli debba intraprendere un'azione giudiziale vera e propria. Qual è, dunque, il criterio valido a qualificare un'obbligazione come di mezzi o di risultato? La linea di distinzione va tracciata ponendo attenzione al tipo di attività che si richiede al professionista, al quantum di controllo che egli esercita sugli effetti della medesima, e all'influenza che essa dispiega sulla realtà: potrebbe, allora, essere considerata di risultato un'obbligazione perfettamente ed esclusivamente intellettuale, che richieda l'applicazione di regole scientifiche o di discipline teoriche "pure", perché essa, a ben guardare si risolve in un prodotto che dipende solamente dall'abilità del professionista stesso e, vorrei dire, in essa si risolve. Diversamente, è proprio quando l'attività del professionista, pur esaurendo la prestazione pattuita, non basta in se stessa al raggiungimento del fine avuto di mira dalle parti che le cose mutano irreversibilmente e l'obbligazione è da considerarsi come di mezzi. Quando, più precisamente, il risultato dipende da quadri fattuali esterni, inferenze complesse di dubbio esito e così via, allora l'obbligazione del professionista è da annoverarsi tra quelle di mezzi, per il semplice fatto che egli nulla può dovere più della sua attività, che tuttavia costituisce solamente un tratto del percorso che conduce al risultato che si ha di mira (14) (14) Proprio l'accennata schisi tra effetto del comportamento del debitore e raggiungimento dell'interesse creditorio nell'ipotesi dell'obbligazione di mezzi veniva efficacemente descritta già dal MENGONI, nella sua trattazione, rimasta a mio giudizio insuperata, sulla materia. Si veda, dell'illustre autore, Obbligazioni "di risultato" e obbligazioni "di mezzi". Studio critico, in Riv. dir. comm., 1954, I, 185-209, 280-320,366-396; sul punto, in particolare 189. . Ora, per venire al caso in commento, un primo dato centrale da chiarire è che la responsabilità del professionista che abbia dimenticato di comunicare il deposito della sentenza e abbia fatto sfumare la possibilità di appellarla non può, mi sembra, in nessun modo essere ridimensionata sulla base di un giudizio probabilistico relativo alle possibilità di vittoria dell'appello oramai improponibile, nella logica implicita di una sorta di obbligazione di risultato "abortita". Qui sta il punto fondamentale della questione: il legale che agisce (o non agisce) nei termini del caso di specie, sottraendo per propria colpa e negligenza al cliente la possibilità di valutare l'opportunità dell'impugnazione della sentenza, risulta chiaramente ed evidentemente inadempiente, senza che a suffragare, o in qualche modo integrare, tale inadempimento debba esservi alcun giudizio prognostico sull'esito della gravame, oramai irreparabilmente sfumato. Se, da un lato, occorre infatti considerare la concreta prestazione dovuta dal legale, senza rifugiarsi nei modelli astratti, dall'altro anche il riferimento all'obbligazione di mezzi o di risultato, o l'inclusione di quella del legale nell'uno o nell'altro schema, non potrebbe, sotto questo profilo, mutare i termini del giudizio (15) (15) La necessità del ricorso ad una puntuale applicazione dei principi generali sanciti dal codice in materia di onere della prova e di valutazione dell'inadempimento viene richiamato anche da recente dottrina che sembra alludere ad un superamento della categorizzazione mezzi-risultato nel senso di un ridimensionamento del suo significato sul piano applicativo. Si veda a titolo d'esempio la riflessione di CARBONE, nota a Cass. civ., 8 aprile 1997, n. 3046; e Cass. civ., 21 marzo 1997, n. 2540, in Corr. giur., 1997, 555. . La legge, infatti, che prevede una disciplina della responsabilità contrattuale unitaria, dove non v'è con evidenza alcuna distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, riconosce che la diligenza professionale deve essere valutata prestando attenzione e dando rilievo alla qualifica del debitore. Ecco la previsione di cui all'art. 1176 comma 2: chi ha particolari conoscenze, deve commisurare alla propria peritia la diligenza applicata nell'adempiere, essendo la base di partenza della diligenza del peritus diversa e speciale rispetto a quella dell'uomo medio non peritus. Ma la legge riconosce anche che il professionista qualsiasi professionista si possa venire a trovare in situazioni di particolare difficoltà oggettiva, dove sarebbe incongruo gravarlo di una responsabilità che, in fondo, farebbe ricadere su di lui un peso che trova ragione nello stato effettivo delle cose, e non è da ricondursi ad una deficienza colposa. Ecco la norma di cui all'art. 2236 c.c.: se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista risponde dei danni solamente in presenza di dolo e colpa grave. La costruzione è coerente: la previsione di cui all'art. 2236 c.c. non contraddice la disciplina di cui all'art. 1176, bensì la completa e precisa (16) (16) Si veda Cass. civ., 28 maggio 2004, n. 10297, "Gli artt. 1176 e 2236 c.c. esprimono dunque l'unitario concetto secondo cui il grado di diligenza dev'essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione resa. E la colpa è inosservanza della diligenza richiesta". ; così la giurisprudenza afferma che il professionista, in realtà, risponde normalmente anche per colpa lieve, mentre l'attenuazione di responsabilità di cui all'art. 2236 opererebbe nelle sole ipotesi in cui si richieda la soluzione di problemi tecnici particolarmente complessi (17) (17) Così, da ultimo, recentemente, Cass. civ., 22 aprile 2005, n. 8546. . È evidente come, nel caso del legale coinvolto nella vertenza che qui si commenta, la responsabilità nei confronti del cliente sia, di fatto, inevitabile e indiscutibile, in quanto ci troviamo palesemente dinanzi ad un caso di colpa grave, non essendovi, evidentemente, alcuna particolare complessità, per un soggetto pratico della materia, nell'adempimento del dovere di informare i clienti dell'andamento della causa evitando così che essi perdano i termini. In nessun modo, dunque, il dato di un possibile, probabile o improbabile successo dell'eventuale appello (mancato) potrà influire sul giudizio di responsabilità che avrà, inevitabilmente, esito positivo. Ciò che si tratta di valutare è se tale profilo possa presentare, invece, una ricaduta sul piano dell'individuazione del danno conseguente all'inadempimento e della risarcibilità dello stesso, come sostenuto dalla Suprema Corte. 3. Il problema dei doveri informativi e la responsabilità dell'avvocato Sebbene la questione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato rimanga, come ho chiarito, per così dire a monte rispetto alla pronuncia in commento, costituendone, per così dire, una sorta di background culturale, resta il fatto che il caso di specie si presenta come un esempio chiaro di come possa essere rischioso, con l'esito finale di non rendere conto del senso complessivo degli eventi, tracciare distinzioni puramente astratte tra le tipologie delle obbligazioni cui il professionista intellettuale è tenuto nei confronti del cliente ovvero decidere sulla base di indebite semplificazioni in relazione all'an o al quantum del danno subito. Al riguardo, occorre considerare quantomeno due punti. Il primo ruota intorno ad un fatto: come abbiamo visto sopra, in qualsiasi insieme o classificazione si scelga d'inquadrare l'obbligazione principale del professionista, lo schema che scolpisce la disciplina della responsabilità contrattuale è uno e uno solo: e quello posto in essere dal legale che dimentichi di comunicare il deposito di una sentenza è un comportamento che integra, certamente, un inadempimento di non lieve importanza e, anzi, di grave portata (18) (18) Per una panoramica sull'argomento si veda MUSOLINO, La responsabilità dell'avvocato e del notaio, Milano, 2005, specie 420 ss., con un'ampia casistica citata. . Tale dato non può ragionevolmente essere sminuito attraverso un discutibile riferimento, ai fini del risarcimento del danno subito, alle prospettive di esito vittorioso o meno della causa. In tal modo, infatti, si finisce con il tenere presente solamente un aspetto molto limitato della realtà, non solo giudiziaria, legata ad un contenzioso legale tra parti contrapposte. L'avvocato viene meno ad un obbligo contrattuale vero e proprio, in quanto egli, con l'assunzione dell'incarico, non solo si impegna al compimento di tutti gli atti necessari all'esame e all'eventuale accoglimento della domanda del suo assistito, ma assume anche un obbligo informativo nei confronti del cliente, che perdura per tutta la durata del mandato e anche oltre (19) (19) Si vedano, nel tempo, Cass. civ., 13 dicembre 1969, n. 3958; Cass. civ., 4 dicembre 1990, n. 11612; Cass. civ., 26 marzo 1997, n. 2661; Cass. civ., 6 febbraio 1998, n. 1286. . Tale dovere informativo, che la dottrina riconosce nella sua particolare pervasività (20) (20) MARTINUZZI, La responsabilità dell'avvocato, Cenni generali, in La responsabilità civile dei professionisti: medici, notai e avvocati, nei Quaderni della Fondazione Forense Bolognese, Bologna, 2004, 88 ss. , obbliga l'avvocato ad informare adeguatamente il cliente in tutte le fasi del rapporto professionale, cosicché egli possa valutare, oltre all'opportunità di portare avanti ulteriormente l'iniziativa giudiziaria intrapresa, anche una serie di altri aspetti, non ultimo quello legato alla continuazione del rapporto con il medesimo avvocato o alla sostituzione del professionista cui ci si sia affidati. Emerge dunque con evidenza non solo l'inadempimento dell'avvocato nel caso di specie, ma anche la complessità dell'intreccio di interessi, tutti presenti in capo al cliente, che viene in gioco nel rapporto che costui intrattiene col legale. Il secondo punto da considerare è da riferirsi ai rischi insiti nell'esito pratico che consegue alla soluzione cui giunge la Suprema Corte. Assumendo come base argomentativa l'idea che la perdita del diritto d'impugnare la sentenza non possa configurarsi di per sé come una conseguenza patrimoniale pregiudizievole, il Collegio, pur fissando un punto, diremmo così, di geometrica e apparente verità fondata su una certa lettura dell'art. 1223 c.c., ne trae tuttavia conclusioni che finiscono col deformare il significato della realtà che ha di fronte, offrendo una lettura confusa e, riterrei, inadeguata tanto del fenomeno della perdita di chances, quanto della reale lesione dei diritti del cliente; lettura che dirige la discussione verso una china pericolosa: quella di sminuire, attraverso argomentazioni logiche ed in fin dei conti, come s'è riconosciuto, non prive di geometrico fondamento, e di rendere sostanzialmente immuni da censure, quantomeno sul piano del ristoro della vittima, atti di negligenza professionale che è inammissibile ed illogico che finiscano col rilevare sul mero piano dell'illecito disciplinare, non trovando riconoscimento sul piano del risarcimento del danno propriamente inteso. 4. Perdita di chances, pregiudizio attuale e risarcimento del danno Quanto alla concreta qualificazione del danno sopportato dalla parte che si sia trovata a subire la negligenza del professionista che non abbia comunicato il deposito della sentenza di prime cure, pregiudicandone in tal modo irreparabilmente l'impugnazione, esso sembra esser fatto rientrare dalla Suprema Corte nella categoria, spesso sfuggente, o non sempre adeguatamente definita, del danno da perdita di chances(21) (21) La letteratura in merito è oramai molto ampia. Interessanti considerazioni sul tema, di recente, sono svolte da PUCELLA, La causalità "incerta", Torino, 2007, 81 ss., e bibliografia ivi citata; in generale si veda quantomeno ALPA, Responsabilità civile e danno, Bologna, 1991, 201 ss. . Al riguardo, il retropensiero che fonda il convincimento del Collegio emerge da un significativo passo della pronuncia, che ne evidenzia, peraltro, ad un tempo la cifra e i limiti. Afferma la Corte, facendo proprio lo spirito dei giudici che l'avevano preceduta nell'esame della questione, che "i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare in concreto i riflessi pregiudizievoli offrendo la prova dell'erroneità della decisione e della concreta possibilità di essere riformata in appello". Emerge qui l'idea-guida che la chance perduta (e dunque, nell'idea della Corte, l'unico danno vantato), da porsi a fondamento della domanda risarcitoria, non possa che essere costituita dalla vittoria o comunque da un esito potenzialmente positivo del giudizio d'appello, nello stesso spirito che porta alla ripetizione pressoché tralatizia, in più pronunce concernenti la responsabilità del legale, di quell'insidiosissimo riferimento alla necessità di una "certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente"; riferimento, questo, cui abbiamo già fatto cenno in precedenza. Orbene, lo spunto d'interesse principale della pronuncia sta nella non risolta ambiguità con cui viene affrontata la materia, complessa, del danno da perdita di chances. Tornano, qui, ancora una volta a sovrapporsi due piani ben diversi, sul cui intrecciarsi riposano tanto il principio quanto le regole del danno da perdita di occasione favorevole. L'impressione di fondo è che un sottile malinteso percorra l'intero circuito argomentativo della pronuncia. Si sommano due precomprensioni: mettendo insieme l'idea della necessità della prova di un risultato potenzialmente favorevole nel giudizio d'appello (e con ciò finendo col saccheggiare a piene mani il complesso ideo-affettivo legato alla trasformazione dell'obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato) con quello del danno inteso semplicisticamente come posta economica legata alla perdita di una sorta di bene futuro (la vittoria nel giudizio), si giunge alla assoluta sottovalutazione del danno non potenziale ma effettivo che il soggetto subisce sul piano dei diritti fondamentali, oltre che dei diritti scaturenti dal contratto stipulato con il professionista rivelatosi negligente. La vicenda, se letta in questa chiave, si pone ben al di là anche del noto dibattito sulla natura giuridica della chance, da intendersi come metro della causalità o come bene autonomo, persino patrimonialmente valutabile (22) (22) Sul punto, in giurisprudenza si vedano quantomeno Cass. civ., 10 novembre 1998, n. 11340; Cass. civ., 1° aprile 1987, n. 3139; Cass. civ., 19 dicembre 1985, n. 6506. In dottrina, si veda la nota di ZENO ZENCOVICH, Il danno per la perdita della possibilità di una utilità futura, in Riv. dir. comm., 1986, II, 207 ss.; più di recente PARTISANI, Lesione di un interesse legittimo e danno risarcibile: la perdita della chance, in questa Rivista, 2000, 566 ss. : perché ciò che dovrebbe venire in rilievo, nel caso di specie, non è solamente la perduta possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni (o comunque di vedere riesaminato il proprio caso, nell'ottica si permetta l'espressione di un diritto a farsi "dire no" tutte le volte che l'ordinamento lo permette), ma anche la lesione, attuale, concreta e non potenziale, al proprio diritto all'autodeterminazione, alla possibilità di decidere come e se proseguire la vertenza secondo una libera e autonoma determinazione personale (23) (23) Per un utile approfondimento dell'interessante questione, esaminata attraverso il ricorso a numerosi esempi e casi, si veda CENDON-ZIVIZ, Il risarcimento del danno esistenziale, Milano, 2003. : pregiudizio al diritto di autodeterminazione che avrebbe potuto e dovuto, a giudizio di chi scrive, essere risarcito. 5. Considerazioni conclusive È dunque interessante osservare come la Suprema Corte, nel sostenere che "la perdita del diritto di impugnare la sentenza non può configurarsi di per sé come una conseguenza patrimoniale pregiudizievole" finisca con il suscitare una serie ulteriore di interrogativi, questioni, perplessità. Ci siamo appena chiesti quale sorte subisca, nella prospettiva abbracciata dalla sentenza, il diritto del soggetto a vedere la propria domanda esaminata in due gradi di giudizio di merito e uno di legittimità; diritto cui mi pare strettamente collegato l'altro, quello di essere posto nella condizione di scegliere autonomamente e liberamente se impugnare o meno la pronuncia sfavorevole. Al riguardo, riterrei improprio in certa misura il riferimento alla categoria del danno da chances, in quanto la perdita del diritto all'esame della vertenza nei successivi gradi di giudizio costituisce, nel caso di specie, un dato certo e attuale. Ciò che pare meno certa è la risarcibilità di un tale pregiudizio inteso in re ipsa o, comunque, posto in relazione ad una serie di conseguenze negative di ampio spettro che non sono sempre agevolmente o puntualmente riconducibili al dettato dell'art. 1223 c.c. Ma legata a questo problema, cui qui possiamo solamente fare cenno, è la questione del sovrapporsi di ulteriori due piani, vale a dire quello dell'an della risarcibilità del danno e della difficoltà nella commisurazione del quantum del medesimo. Perché una cosa è sostenere che il danno arrecato dalla mancanza della possibilità di scelta in merito all'impugnazione (scelta sottratta al libero apprezzamento del cliente in ragione della negligenza del legale) non costituisce di per sé danno risarcibile in mancanza di un'adeguata dimostrazione del pregiudizio patrimoniale direttamente collegato a detta perdita; e altra cosa è invece non riuscire a quantificare il danno probabilmente (ma con quale grado di probabilità?) derivante da tale perdita (si pensi, a mero titolo d'esempio, all'eventualità in cui, pur sconfitto in appello, il cliente fosse risultato poi vincitore in sede di legittimità, con conseguente allungamento dei tempi, con il sommarsi di una serie di fattori esterni evidentemente imponderabili e difficilmente sottoponibili ad un giudizio prognostico) o il danno certamente determinatosi a seguito della lesione di un diritto, quello all'autodeterminazione, chiaramente ed evidentemente leso, come nel caso di specie. Non è chi non veda, tra l'altro, in questa prospettiva, non considerata dal Supremo Collegio, come la questione della quantificazione del danno finisca col risolversi in un falso problema: essa, infatti, ben potrebbe essere realizzata attraverso un riferimento equitativo, idoneo, tra l'altro, a tenere conto dell'insieme delle circostanze e delle implicazioni negative derivanti, su ogni piano, dalla lesione del diritto e dell'interesse pregiudicati. Al riguardo, paiono venire in soccorso le riflessioni di una recente ed attenta dottrina, secondo la quale " è (...) importante che la violazione di certi diritti non sia fatta oggetto di tutela alla sola condizione che si riveli fonte di pregiudizi ulteriori (la vittoria di una lite o la perdita delle chances di vincerla). Ove la protezione risarcitoria venga fondata non sulla misura delle chances perdute ma sulla valorizzazione, ove possibile ed in sé considerata, del diritto leso, diverso dovrebbe risultare anche il processo di quantificazione del danno" (24) (24) PUCELLA, La causalità "incerta", cit., 150. . Ad ogni modo, non risulta incomprensibile, anche alla luce dei rilievi cui si è avuto modo di fare cenno, che la materia del danno da perdita di chances, o quantomeno quell'ampia casistica che a tale ambito viene, a torto o a ragione, ricondotta, costituisca un terreno sempre ricco di incertezze e insidie; né che i primi compiuti tentativi di fronteggiare queste ampie e gravi questioni risalgono nel passato oltre l'ultimo secolo. Sotto un altro aspetto, da vicende quali quella su cui mi sono soffermato, emerge ancora una volta la delicatezza del rapporto tra l'obbligazione del professionista, le possibili molteplici vicende legate all'inadempimento delle stesse e il diritto al risarcimento del relativo danno. Al punto che davvero quello di un'equilibrata tutela delle ragioni e dei diritti del cliente e al contempo della posizione del professionista sembra finir con l'appartenere all'insieme purtroppo sempre più affollato di quei problemi mai ben risolti dall'applicazione degli schemi generali e delle costruzioni teoriche di tipo geometrico che vorrebbero tenere al riparo i casi della vita e dei rapporti giuridici da quello scontro tra opposte esigenze ed opposte pretese che, nel caso delle professioni intellettuali, rischia di tradursi in una guerra senza vincitori né vinti, tra istanze di irragionevole immunità da una parte e pretese di facili strumentalizzazioni dall'altra.
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