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SE OPERATE DEI TAGLI NE POSSONO USCIRE TRE QUATTRO DIVERSI
Se al cliente il diritto di recesso è riconosciuto dalla legge nella forma più ampia, soprattutto a motivo dell'intuitus personae, che caratterizza il contratto d'opera intellettuale, anche al professionista viene concessa la facoltà di recedere dal rapporto, ma con alcune limitazioni.
In base all'art. 2237, comma 2, c.c., infatti, il prestatore d'opera può recedere solo per giusta causa.
La differente disciplina del recesso per il cliente e per il professionista ha dato adito a dubbi circa la conformità alla Costituzione dell'art. 2237 c.c.; dubbi peraltro fugati dalla Corte costituzionale, che non ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, motivando la sua decisione con la sostanziale diversità dei due rapporti.
Sull'infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 2237 c.c., in rapporto al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nella parte in cui regola il recesso del professionista in modo diverso da quello del committente, si veda Corte cost. 13 febbraio 1974, n. 25, cit.
Secondo tale pronunzia, il diritto di recesso unilateralmente riconosciuto al cliente non dà origine ad una disparità di situazioni nei confronti del prestatore d'opera, ma si sostanzia in una posizione negoziale che deriva razionalmente dalla struttura stessa del rapporto contrattuale e dalla differente natura delle rispettive prestazioni.
Considerata la natura del negozio, è pienamente razionale che il prestatore d'opera non abbia diritto alla prosecuzione del rapporto, una volta che il cliente abbia revocato l'incarico, così come è razionale che lo stesso professionista non possa recedere discrezionalmente dal contratto se non per giusta causa e in maniera da evitare qualsiasi pregiudizio al committente.
In particolare, può dirsi che la differenza di posizioni si fonda nella evidenza pubblica dell'esercizio della professione e, quindi, nella natura pure pubblica dell'interesse da tutelare, che incorpora in sé l'interesse delle parti private.
Per quanto attiene alla definizione della giusta causa, necessaria, in base alla normativa codicistica, per il recesso del professionista, si è rilevato come sia difficile stabilirne una individuazione a priori, poiché si concreta, in genere, in circostanze la cui valutazione può essere compiuta solo caso per caso.
Si ritengono, comunque, qualificabili come giuste le cause che interferiscono sul necessario affidamento nei riguardi della prestazione anche da parte di chi si è impegnato a porla in essere, venendo, perciò, in rilievo circostanze sopravvenute tali da non consentire al professionista di adempiere ai suoi obblighi con l'obiettività e le cognizioni richieste dalla natura della prestazione.
Venendo a qualche esempio pratico, una giusta causa di recesso può rinvenirsi nel comportamento del cliente (ad esempio, il mancato anticipo delle spese occorrenti, il rifiuto di collaborare quando la collaborazione condizioni la prestazione, la sopravvenuta condanna del cliente per reati infamanti secondo la coscienza popolare e in relazione alla natura del rapporto professionale, ecc.).
Su questo punto, si rinvengono alcune limitazioni nei principi e nelle regole di deontologia professionale, in particolare in materia di professione medica, poiché la tutela della salute e la preminenza dell'interesse del malato dominano il rapporto in ogni sua vicenda.
In ordine ai compensi dovuti al professionista, rileva come, mentre nella fattispecie di recesso del cliente il professionista riceve un compenso pieno per l'opera che ha svolto, nel caso in cui sia esso a recedere per giusta causa dal contratto ha diritto, oltre che al rimborso per le spese sostenute, ad un onorario determinato con riguardo al risultato utile che il cliente abbia conseguito (art. 2237, comma 2, c.c.).
Con questa precisazione, il legislatore implicitamente ammette che il diritto al compenso potrebbe anche non esservi, se il risultato non presentasse utilità alcuna. Infatti, la normale irretroattività del recesso viene ad essere ancora operante, in subordine all'esistenza di un risultato utile e, in quanto tale, non ricusabile dalla controparte. L'utilizzabilità della prestazione effettuata dovrebbe essere accertata, di preferenza, con criteri obiettivi.
Secondo parte della dottrina, invece, poichè è regola costituzionalmente protetta che l'attività lavorativa vada retribuita e poiché spesso, nei rapporti professionali di natura intellettuale, l'attività stessa si esplica in meri comportamenti, il compenso è comunque dovuto, pure se non si giunge ad alcun utile risultato.
Così, non potrebbe ammettersi che il professionista recedente per giusta causa abbia prestato invano la sua opera. Tale affermazione resta ferma anche nell'ipotesi che oggetto del contratto sia un opus. Il criterio dell'utilità potrebbe, invece, essere applicato per la determinazione di un compenso anche superiore ai minimi di tariffa, qualora dall'esecuzione parziale derivi un qualche vantaggio per il cliente.
In base al terzo comma dell'art. 2237 c.c., il recesso del professionista intellettuale deve, comunque, venire esercitato in modo da non arrecare pregiudizio al cliente ed è indice, da un lato, dell'esigenza di una particolare tutela delle ragioni del cliente, per il quale sono spesso in gioco beni primari (quali la salute, la libertà, ecc.), e, dall'altro, dell'applicazione del principio di correttezza, che deve informare l'operato del professionista, in base a disposizioni aventi natura sia civilistica (quali l'art. 1175 c.c.), sia deontologica.
La legge dispone che, per poter esercitare il diritto di recedere dal contratto, il professionista debba invocare la presenza di una giusta causa.
Quid iuris qualora il prestatore d'opera intellettuale receda senza che possa giustificare il suo atto secondo quanto disposto dall'art. 2237, comma 2, c.c.?
Secondo un'opinione, il complesso della normativa conferma la sussistenza di un'intima connessione fra interesse pubblico ed interesse privato, che è tipica del rapporto di prestazione d'opera intellettuale e ne giustifica la differente disciplina, rispetto a quella prevista per il contratto d'opera manuale.
Si deve, a tal riguardo, sottolineare che il limite della giusta causa, per il recesso del professionista, non incide sul vincolo sinallagmatico.
Infatti, la prestazione, analogamente a quella d'opera manuale, ha carattere infungibile e non se ne può ottenere l'esecuzione coattiva. Più precisamente, se per la seconda sarebbe, in ipotesi, astrattamente possibile un'esecuzione ad opera di terzi, a spese del prestatore inadempiente, ciò non è configurabile in ordine alla prestazione di carattere intellettuale, che è, evidentemente, strutturalmente legata alla persona di colui che la deve eseguire.
Di conseguenza, deve ritenersi che la manifestazione di volontà di recesso produca egualmente l'effetto estintivo del rapporto. Tuttavia, il cliente, ove ne sussistano i presupposti, può domandare ed ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell'illegittima cessazione del rapporto medesimo, sempre che l'esistenza di un danno risarcibile sia provata.
Ciò posto, Nel caso esaminato, la semplice nomina di un secondo prestatore d'opera, peraltro diversamente qualificato dal primo, non sembra costituire un elemento dirimente sul piano dell'adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto, sulla cui base poter ritenere configurabile un serio ed apprezzabile vulnus al vincolo fiduciario.
Se davvero ciò fosse accaduto, la società cliente del dottore commercialista avrebbe certamente provveduto a revocare il mandato precedentemente conferito al suddetto professionista invece di decidere di affiancargli in aiuto un secondo, che peraltro, oltre ad essere dotato di uno specifico bagaglio tecnico nella stessa materia considerata, è operante in un diverso ambito professionale.
In buona sostanza, una cosa è l'insoddisfazione manifestata dal cliente per l'operato svolto dal professionista, ed un'altra, il fine coltivato dal cliente nel voler accrescere le proprie chance di vittoria - nella fattispecie, riferito al contenzioso in essere presso la commissione tributaria - con la nomina di un ulteriore prestatore d'opera, che nel caso in esame neppure potrebbe rilevare quale comportamento concludente, sulla cui scorta poter desumere implicitamente una qualche volontà del cliente di voler porre fine al rapporto. Sull'argomento, cfr. Cass., sez. II, 12 novembre 1976, n. 4181, in Mass. Giur. it. , 1976, 984.
È allora evidente come soltanto ove si versi nella prima ipotesi sarà consentito al professionista avvalersi della facoltà di rinunciare al mandato, senza che ciò comporti a suo carico la perdita del diritto ad esigere il compenso dal cliente
E, pertanto, essendo privo di giusta causa il recesso del dottore commercialista dal mandato professionale determinato esclusivamente dalla nomina di un ulteriore difensore di fiducia: ne deriva che, ai sensi dell'art. 2237 c.c., a seguito del recesso il professionista non ha diritto al rimborso delle spese fatte ed al compenso per l'opera svolta ma, al più, solo il rimborso delle spese borsuali sostenute per conto e nell'interesse del cliente salvo il risarcimento dell'eventuale pregiudizio causato al cliente.
CITAZIONE (chicago09 @ 14/12/2010, 16:39)
cmq C.d.A di Milano 24 settembre 2010 è corretto.
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